Tra le tante “storiacce d’Italia” raccontate nel libro, la vicenda di Casale Monferrato e della sua vita all’amianto.

“La sfilata dei morti che verranno”. Con questo titolo, grandioso e terribile, “La Stampa” raccontava l’inizio del processo Eternit del 2009. Quel processo che doveva rappresentare un’amara consolazione per migliaia di persone che avevano visto morire a poco a poco i loro cari e che si concluse con l’amara beffa della prescrizione.

Già perché dietro le carte dei processi e il balletto di accuse e difese c’è la vita quotidiana di quella gente che sull’amianto e con l’amianto aveva costruito la propria esistenza. Vita che viene raccontata nella sua terribile e cruda quotidianità da Alessandro Calvi in “Paracarri. Cronache da un’Italia che nessuno racconta” (pp. 240 – € 14,00) in libreria in questi giorni per Rubbettino.

“A Casale – racconta Calvi – la polvere d’amianto era ovunque. E i bambini ci giocavano. i bambini non soltanto correvano con le biciclette su quelle strade coperte di polvere bianca: quei bambini quando era estate andavano con le famiglie sul Po per passare la giornata. Ma quella non era una spiaggia naturale: era nata per l’accumulo di residui di cemento e amianto sulla sponda del fiume all’altezza dello stabilimento. Alla fine a Casale gli diedero anche un nome a quella crosta innaturale: la Spiaggetta. Ed è proprio su quella incrostazione, fatta di scarti di fibre di amianto e di cemento mescolate all’acqua del fiume, che i casalesi andavano; e andavano come altrove si va a passare una giornata al mare.”

Quella polvere che per una società contadina come quella del Monferrato era sembrata un segno di benedizione divenne presto simile al fumo dell’inferno:

“Il polverino – continua Calvi – poteva essere trasformato praticamente in qualsiasi cosa, ed essendo un prodotto di scarto passava di mano per poche lire se non veniva addirittura regalato. A volte nei cortili delle case ne venivano scaricati dei mucchi interi, veniva impastato con l’acqua e ci si rifaceva il pavimento, oppure si mescolava con la ghiaia per rinnovare il vialetto del giardino. Uno dei testimoni ascoltati durante il processo torinese, Vittorio Giordano, ha raccontato che addirittura l’oratorio che frequentava − quello del Duomo, nel centro della città, dove giocavano i bambini − venne ripavimentato in questo modo. Ma il polverino era buono soprattutto come materiale per la coibentazione, come isolante termico. Così, veniva sparso a quintali direttamente nei solai, nelle intercapedini delle abitazioni. E da lì poteva finire ovunque. Insomma, tutti in città potevano respirare quella polvere, non soltanto gli operai. E infatti ci si ammalava e si comincia a morire anche tra i casalesi che non avevano niente a che fare con la fabbrica. Insomma, Casale era come un girone infernale”.

Ma quella di Casale e del suo “inferno di polvere bianca” non è l’unica storiaccia che Calvi racconta nel libro: ci sono le baracche di Messina, la città beffa di Mussolinia, Giarre, capitale dell’incompiuto, il campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia… la vicenda Pasolini e di quella Roma borghese che per Pasolini era “morta senza mai essere vissuta” e che adesso paradossalmente diventa pasoliniana per eccellenza. Tante storie che abbiamo preferito dimenticare ma che ci vengono costantemente ricordate dai luoghi nei quali sono ambientate e che questo libro inchiesta, fatto di tante inchieste, racconta in maniera cruda e impietosa.