Ogni libro di Vito Teti è una benedizione. Il suo racconto del Sud, dell’erranza meridionale, è fatto attraverso racconti antropologici: uomini che emigrano sperando nella fortuna americana, donne che ascoltano in sogno San Giorgio che consiglia come scannare il drago. Anche questo è un libro letterario bellissimo come tutta la produzione di Teti.
Roberto Saviano (clicca qui per leggere la recensione completa)

“È sparito il Sud”, titola l’ultima copertina dell’Espresso con una significativa immagine di un’Italia in cui le regioni meridionali sembrano sommerse dal mare. Sparite.

È un ulteriore esempio di come la Questione meridionale, che sembrava essere uscita dalla porta dell’agenda dei media italiani e della politica, sia entrata improvvisamente e con prepotenza dalla finestra.

Non si cresce senza Sud. Lo sviluppo del Sud condiziona quello dell’intero Paese. È questo il tam tam continuo di questi ultimi mesi di dibattiti. Già, ma che fare?

Forse una strada dovrebbe essere quella di capirlo a fondo questo Sud, di comprenderne la storia e le mutazioni che questa storia ha impresso sul carattere e la psicologia dei suoi abitanti.

È quello che tenta di fare (riuscendoci benissimo) il nuovo libro di Vito Teti edito da Rubbettino (in questi giorni in libreria) intitolato “Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale”. Libro che Roberto Saviano ha salutato con entusiasmo affermando che “ogni nuovo libro di Vito Teti è una benedizione” e che questo è un libro “bellissimo”.

“Terra inquieta” è per molti versi un libro sorprendente, che demolisce il classico luogo comune di un Sud da sempre immobile e uguale a se stesso e ci consegna invece l’immagine di un Sud irrequieto, inquieto, sempre in movimento, in fuga, persino da se stesso, un Sud la cui identità (con tutti i limiti e le cautele che questo concetto porta con sé) è nell’erranza e nell’inquietudine.

Popoli che approdano sulle coste calabresi e meridionali, un tempo come oggi. E meridionali che da quelle stesse regioni partono verso l’ignoto, verso le Americhe, verso l’Europa del Nord. Viaggi mitici (come quelli dei morti nel mondo contadino), viaggi religiosi e simbolici, come quelli fatti in occasione dei pellegrinaggi e delle festività religiose, viaggi reali, come quelli degli emigranti. Una terra in fuga, dicevamo, inquieta, dove persino i paesi si spostano, si duplicano, si frammentano in un caleidoscopio di immagini riflesse in cui i rapporti tra gli individui si trasformano in un groviglio di vecchio e nuovo, di fermate e ripartenze, salti avanti e passi indietro.

Da qui, da questa inquietudine di fondo, l’essere smarrito dei calabresi e dei meridionali in genere. Quell’essere sempre a posto e fuori posto. Quel sentirsi eternamente spaesati, provvisori. Quella malinconia per un mondo scomparso che è propria di chi ha abbandonato quelle terre, ma anche di chi vi è rimasto non riconoscendole più come proprie. Sentimenti ben sintetizzati nella domanda “Che ci faccio qui?” che fa da titolo alla collana diretta dallo stesso Teti, edita da Rubbettino, e che questo volume inaugura.

La quarta di copertina

Vito Teti ha sempre un viaggio qua intorno da raccontare, un volto nascosto da nominare tra le righe di un saggio, un ritaglio di vita minuta da incorniciare con tutte le sue scoloriture. “Terra inquieta” è un libro che è tanti libri insieme, e tutti servono a qualcosa: uno racconta di calabrie mobili che crollano e franano; l’altro di uomini che sperano futuro cercando l’America, ma cercandola incontrano la storia; l’altro ancora di donne che ascoltano in sogno i consigli di San Giorgio per vincere ogni drago, gli uomini che i santi li portano a spalla per sacralizzare la polvere e il mare che siamo, di giovani laureati che partono perché l’ultimo lavoro non pagato è un’umiliazione ormai intollerabile. Ma in Terra inquieta c’è pure gente che resta tentando di salvare rovine e pilastri di cemento che si alzano al cielo, per farne qualcosa che vive. In questo vagare per spazi vasti e insieme profondi lo scrittore di “Maledetto Sud” raccoglie ogni mollica, mentre l’antropologo de “Il senso dei luoghi” prova una teoria capace di dare forma al sussulto imprendibile della Calabria. Così nasce “Terra inquieta”, una storia di linee che ricostruisce la necessità e l’ossessione per la mobilità di una regione contadina eternata dal tempo circolare dei greci, spezzata dalle catastrofi che però sempre ritenta nuove circolarità per non mutare sguardo su di sé, infine la Calabria moderna, quella che naviga in linea retta verso un tempo migliore. I viaggi in America hanno costretto la Calabria alla storia, all’evidenza di un mondo che non resta uguale a se stesso, perché solo il rischio di finire consente agli uomini e alle terre di vivere davvero, tra macerie e fioriture. Su gemme e crolli di Calabria si appunta allora lo sguardo largo di Teti, perché l’autentica cura dei luoghi esige una paziente e rispettosa attenzione, una quieta fiducia nella fecondità di quello che pare tanto complesso e scomposto da non avere un verso per crescere, eppure un verso lo trova.