In libreria per Rubbettino “La spugna d’oro” dello studioso Dario Lanfranca che mette in relazione la storia politica siciliana con le origini di cosa nostra

Grazie al lavoro di inquirenti e studiosi oggi sappiamo molto della mafia, di com’è strutturata, della sua ramificazione all’interno della società. L’aspetto che continua a rimanere avvolto nel mistero resta però quello delle sue origini che spesso vengono grossolanamente confuse con quelle del brigantaggio, quasi che l’una fosse la naturale prosecuzione dell’altro.
“La spugna d’oro” (Rubbettino), Il saggio di Dario Lanfranca, studioso siciliano, dottorato a Parigi, attualmente docente a Palermo, vuole indagare proprio quel tratto della storia della mafia che appare ancora fumoso ed enigmatico. Il libro che Rubbettino lancerà in libreria il prossimo 20 giugno vanta la prefazione di Goffredo Fofi e una postfazione di Enzo Ciconte. “La spugna d’oro” è il frutto di una ricerca durata dieci anni tra gli archivi siciliani e alcune tra le più importanti biblioteche europee, in particolare la BNF di Parigi. 

L’autore arriva a delineare l’oggetto sfuggente del suo studio solo dopo aver percorso una lunga – e non frequentata  – strada, quella della storia politica della Sicilia. Tutto comincia con un sovrano, Federico III d’Aragona, che nella turbolente fase post-Vespri per mantenersi al potere è costretto ad offrire ai feudatari siciliani buona parte delle competenze e dei beni che appartenevano alla corona: da qui comincia una dinamica di continuo logorio del potere centrale da parte dei poteri periferici rappresentati dai feudatari, legittimati dalle ‘costituzioni’ di Federico, i quali diventano (e permangono nel corso di secoli) signori assoluti di buona parte del territorio isolano. In Sicilia nasce quindi una pratica politica che non si trova da nessun altra parte, in cui al centro del confronto pattizio tra la classe dirigente locale e il sovrano (che dal 1400 circa in poi risiederà fuori) c’è il demanio regale: si verifica il paradosso di sovrani che nel parlamento siciliano – il luogo di ogni compromesso pattizio – mettono in vendita parte dello ‘Stato’ per avere il denaro che consenta loro di riacquistarne parti vendute precedentemente. In Sicilia si sviluppa un’ideologia originale che l’autore chiama con un neologismo nazionalautonomismo, che consiste in una concezione flessibile della nazione che è tale solo nella misura in cui garantisce pattiziamente le prerogative autonomistiche, cioè gli interessi dei potentati locali.  Nel meccanismo di funzionamento e di riproduzione del sistema vicereale-parlamentare che per secoli governa l’isola, un ingranaggio essenziale era costituito da quelle strutture adibite alla violenza e al controllo dell’ordine pubblico, con una storia tutta a sé stante di Palermo, centro della dinamica pattizia da cui partivano e in cui confluivano le diramazioni politico-amministrative-economiche dall’intera isola. La fine del parlamento nel 1816 crea un vuoto che viene riempito dalla polvere del crollo delle suddette strutture che nel corso dell’Ottocento si rideposita creando un nuovo aggregato: la mafia. Un aggregato composto da una strana caratteristica mistura di vecchio, anche molto vecchio, e nuovo.