Sabato sera, migliaia di tifosi presenti allo Stadio Olimpico di Roma e alcuni milioni di italiani seduti davanti alla Tv si aspettavano di assistere ad un grande
momento di sport e di festa. La finale di coppa Italia. La sfida tra due grandi squadre: Napoli e Fiorentina.  Ed invece, si sono trovati di fronte ad un duplice e inaspettato scenario. Il primo, di violenza criminale. Si è sfiorato un pluriomicidio fuori dallo stadio e si è assistito al lancio di bombe carta e petardi dentro l’arena di gioco. Il secondo, è stato uno scenario di resa. Quella dello Stato e del mondo del calcio nei confronti di un capo ultras in odore di camorra che ha deciso che il match si poteva disputare. La trattativa, dunque, c’è stata. I collaboratori del procuratore Stefano Palazzi, che hanno assistito al dialogo tra il capitano della squadra partenopea, Marek Hamsik e Gennaro De Tommaso, in arte Genny ‘a carogna, l’hanno scritto nero su bianco. Anche se il Ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ieri l’ha ufficialmente smentita.
Genny-a-carogna-bis
Sabato sera abbiamo assistito ad un altro colpo mortale all’immagine e alla credibilità non solo del calcio, ma anche del nostro Paese. Sia per la violenza a cui abbiamo assistito, sia per il triste spettacolo offerto dalle autorità sportive e istituzionali presenti in tribuna vip. Nessuna di queste persone ha avuto un sussulto di coraggio e di dignità e se ne è andata, compiendo un gesto simbolico forte. Nessuno ha pensato, insieme ai presidenti delle due squadre, di scendere in mezzo al campo e di lanciare un preciso messaggio: con la violenza non si gioca. No, tutto questo non è accaduto. The show must go on. Il mantenimento dell’ordine pubblico è come la ragion di stato. Viene prima di tutto e nonostante tutto. Si è dovuto – si deve – giocare.
Quello che si è visto all’Olimpico è la punta dell’iceberg di un fenomeno ormai strutturale: il rapporto calcio e mafie, che il libro Calcio criminale (Rubbettino) di Pierpaolo Romani, già un anno e mezzo fa ha documentato con dovizia di particolari.
Tre anni fa, il pool di magistrati della Procura di Napoli che segue i cosiddetti reati da stadio, aveva segnalato in un documento ufficiale come il rapporto tra mondo delle tifoserie e quello delle mafie si sia stretto sempre di più. Diversi capi ultras sono legati a clan criminali o, addirittura, ne sono affiliati. Inoltre, il mondo del tifo organizzato, da Nord a Sud della penisola, ha deciso di adottare il modello mafioso, sia a livello organizzativo che operativo. Dentro e fuori dallo stadio. Selezione dei componenti dei gruppi, riti di affiliazione, omertà diffusa, uso di simboli (tatuaggi), esercizio della violenza e dell’intimidazione, controllo di settori interi degli stadi. Costrizione a cantare cori o ad esibire forzatamente degli striscioni offensivi e minacciosi, verso una squadra o un giocatore, per tutti coloro che sono presenti in curva.
Con i facinorosi non si tratta, ha ammonito il Presidente della Repubblica. Parole importanti che, tuttavia, non trovano riscontro nella realtà. Le società di calcio, infatti, anche a livello professionistico, hanno un rapporto ambiguo con gli ultras. Pubblicamente dichiarano di volerli contrastare, mentre nella quotidianità, spesso, mantengono rapporti con questi delinquenti, pensando che sia meglio agire per ridurre il danno anziché evitarlo completamente. Questa logica conferisce agli ultras un forte potere di ricatto ed apre loro le porte della gestone di affari e di interessi che ruotano attorno al mondo del pallone: compravendita di biglietti, gestione delle trasferte, merchandising, tanto per fare alcuni esempi. Per non parlare dell’attività di spaccio di sostanze stupefacenti. Tanti soldi e tante relazioni. Capitali finanziari e capitale sociale, direbbero gli esperti. Questi sono gli interessi dei mafiosi e degli ultras verso il mondo del calcio. La passione e il divertimento non c’entrano un bel niente.