Non cessa la polemica intorno alla Messa annunciata in suffragio del boss Rocco Sollecito in provincia di Bari. Abbiamo chiesto un parere a Isaia Sales, storico, esperto di storia delle mafie, ed autore per Rubbettino della recente nuova edizione del libro “I preti e i mafiosi”
ISAIA SALES: «Negli ultimissimi anni la comunità cattolica italiana, nel suo insieme, ha sempre più consapevolmente assunto la gravità del fenomeno mafioso rispetto al lungo passato di silenzio, di non avversione e (in molti casi) di sostegno del potere mafioso. Nel 2014 Papa Francesco in Calabria ha pronunciato la parola “scomunica” nei confronti dei mafiosi dopo che per decenni e decenni questa parola era stata bandita dal linguaggio dei vertici della Chiesa nei confronti degli appartenenti alle mafie, mentre si continuava ad usarla verso gli abortisti e si brandiva come minaccia ogniqualvolta era messa in discussione la dottrina della Chiesa in materia sessuale o la sua concezione della vita. Nel 2013 Padre Puglisi è stato proclamato beato: per la prima volta un uomo di Chiesa è stato innalzato agli altari per aver avversato la mafia.
Eppure, nonostante queste novità, può succedere, come è successo a Grumo Appula in provincia di Bari, che un prete senta il bisogno di manifestare pubblicamente per la morte di un mafioso una considerazione e un trasporto umano e religioso particolari. Ciò pone il seguente interrogativo: è cambiato qualcosa di profondo nel complesso rapporto tra fede cattolica e mafie? Le pur importanti prese di posizione degli ultimi tempi da parte delle gerarchie sono tali da invertire gli inquietanti comportamenti del passato, anche recente? In altre parole: la Chiesa cattolica ha inaugurato un nuovo corso nei confronti delle mafie in maniera così radicale da annullare tutte le ampie zone d’ombra del suo rapporto storico con le mafie?
Nel mio libro I preti e i mafiosi ho ampiamente dimostrato come ci sia una distanza enorme tra le posizioni ufficiali dei vertici della Chiesa (Papa, vescovi, organi di rappresentanza) e il comportamento dei singoli preti e delle singole parrocchie. Come se mancasse non solo un’uniformità di vedute tra i vari livelli della gerarchia ecclesiastica, ma anche disposizioni dettagliate con le quali anche i preti più riottosi e più preoccupati delle conseguenze dello loro decisioni potessero farsi scudo.
Prima dell’episodio di Grumo Appula c’è stato il fastoso funerale del boss Casamonica a Roma, proprio nella città sede del Vaticano. E il parroco non solo non ha avuto la forza di dire di no ma anzi ha affermato che lo avrebbe rifatto. Eppure nella stessa chiesa fu vietata la cerimonia religiosa per Piergiorgio Welby, afflitto da sclerosi multipla e militante del Partito Radicale, deceduto grazie all’assistenza di sanitari che diedero seguito alla sua volontà di porre fine alla lunga agonia. Al boss Casamonica il funerale religioso sì, al mite Welby no.
Negli ultimi anni, poi, numerosissimi sono stati gli episodi di omaggi durante le feste religiose di statue di santi e madonne ai mafiosi. Il che lascia presupporre una lunghissima tradizione di uso della religiosità popolare come strumento di legittimazione del potere locale dei mafiosi. Tutto ciò è sempre avvenuto con la assoluta compartecipazione delle gerarchie diocesane e dei preti locali o con la loro silenziosa acquiescenza. Sotto questo aspetto, la religione e le sue tradizioni sono state utilizzate come “instrumentum regni”, cioè come mezzo da parte dei mafiosi di riconoscimento del potere della violenza come forma di regolazione della società locale.
L’arcivescovo di Monreale, mons. Pennisi, ha emanato recentemente un decreto volto a bloccare la presenza di mafiosi nelle confraternite. Ma ciò è avvenuto solo a seguito dell’arresto del superiore della confraternita delle Anime Sante di Palermo. E nel 2012 il boss Alessandro D’Ambrogio del quartiere Ballarò (sempre a Palermo) sfilava in prima fila con la pettorina della confraternita dietro la statua della Madonna del Carmelo; dopo il suo arresto per associazione mafiosa, la statua della madonna si è inchinata durante la festa successiva davanti al covo del boss. E nel corso del 2013 è avvenuto un altro episodio grave: la concessione della chiesa simbolo del capoluogo siciliano, la Cappella Palatina, per il matrimonio della nipote dell’ultimo grande latitante di Cosa nostra, cioè Matteo Messina Denaro. E anche nell’episodio di Nicotera in Calabria, il matrimonio della figlia di un boss per il quale si fa atterrare nel centro storico un elicottero con gli sposi bloccando per ore l’intero paese, non si poteva ricordare da parte della chiesa locale o della diocesi che i sacramenti presuppongono sobrietà e nessuna ostentazione del proprio potere, soprattutto se criminale?
Che dire poi delle patenti di buona condotta che tanti preti hanno dato e continuano a dare ai boss mafiosi nel corso delle loro testimonianze in tribunale durante i processi? Come la deposizione nel 2012 durante il processo All Inside di don Memè Ascone, parroco di Rosarno, a favore del boss Francesco Pesce. Oppure l’uso delle benedizioni papali ai fini del riconoscimento del potere e del rispetto di cui godono i boss delle mafie, come per il matrimonio della figlia del boss ‘ndranghetista Pasquale Condello celebrato nel duomo di Reggio Calabria. Com’è possibile che la curia non sapesse che stava per sposarsi la figlia di uno dei boss più importanti della ‘ndrangheta?
La possiamo mettere in tutti i modi, ma è evidente che la religione cattolica, così come si è originata e sviluppata nell’Italia meridionale, non è stata un ostacolo al dispiegarsi del potere mafioso, anzi. I fenomeni mafiosi si sono sviluppati in società e ambienti cattolicissimi pur rappresentando una violazione sistematica dei comandamenti e dei precetti dell’etica cristiana. E non ce la si cava sostenendo che quella dei mafiosi è superstizione e non sentita partecipazione religiosa. Se i mafiosi praticano una credenza cattolica falsa e fatta solo di apparenze, è perché hanno trovato e copiato modelli ampiamente in essere nei tantissimi fedeli che questa religione annovera nei territori meridionali.
Ancora oggi manca dall’interno della Chiesa italiana una spiegazione storica e dottrinale del proprio comportamento. Comportamento che non è estraneo al duraturo successo delle mafie.
Certo, ci sono preti che in diversi quartieri dominati dalle mafie svolgono una straordinaria opera sociale, culturale e perfino economica per contendere bambini, ragazzi e giovanissimi al reclutamento mafioso. E a volte questa vera e propria azione missionaria si svolge nella totale assenza delle istituzioni statali e comunali e del volontariato non religioso. E allora? I preti come quello del funerale di Vittorio Casamonica non possono farci dimenticare il valore dei preti di frontiera nei territori mafiosi. Ma i preti missionari nei quartieri mafiosi non annullano il danno sociale e civile degli altri. Si possono far convivere due comportamenti così antitetici all’interno della stessa Chiesa e degli stessi luoghi dove operano?»