Trent’anni fa Sciascia recensiva sulle pagine del «Corriere della Sera« un libro edito da Rubbettino di un giovane studioso inglese, Christopher Duggan, con il celebre articolo “I professionisti dell’antimafia”
“La mafia durante il fascismo”: questo il titolo del libro di Duggan edito da Rubbettino nel 1986 e ripubblicato (sempre da Rubbettino) nel 2007
Probabilmente Christopher Duggan, all’epoca ancora giovane allievo di Dennis Mack Smith (ma poi diventato celebre studioso di storia italiana fino alla sua prematura scomparsa avvenuta di recente), non avrebbe mai immaginato che il suo primo libro, frutto del suo lavoro per la tesi di dottorato avrebbe suscitato un simile terremoto nel mondo culturale italiano.
Il libro edito da Rubbettino si occupava della campagna antimafia condotta dallo stato fascista in Sicilia per mezzo del “prefetto di ferro” Mori. Ma per capire le ragioni del fallimento dell’intervento fascista si doveva andare più a fondo, alle radici del fenomeno mafioso. Lo studioso inglese contestava la lettura della mafia come organizzazione e l’identificazione della mafia con Cosa Nostra evidenziando come semmai vi fosse un sostrato culturale che non andava trascurato:
«Se la mafia – scriveva lo storico inglese nella prefazione alla nuova edizione del volume stampata da Rubbettino nel 2007 – fosse sempre stata un’organizzazione criminale unitaria dotata del tipo di struttura formale di Cosa Nostra e con poca o nessuna legittimazione culturale all’interno della società siciliana – come alcuni storici di oggi continuano a sostenere – sarebbe stato estremamente improbabile che il problema avrebbe continuato a persistere come è invece accaduto. Il peso dell’evidenza storica indica una realtà molto più complessa, che nasce dall’assenza per secoli di un’effettiva struttura statale in ampie zone dell’isola e dallo stabilirsi di modelli di comportamento e valori connessi all’esercizio della violenza privata. Questi modelli di comportamento non sono mai stati completamente abbandonati per una serie di ragioni derivanti tanto dalle deficienze dello stato italiano sin dal 1860 quanto dalla penuria economica della zona. Mori capì perfettamente che le operazioni di polizia da sole avrebbero avuto effetti di scarsa durata; ma il fascismo era più interessato alla retorica che non alla sostanza del successo e fallì, dopo il 1929, nel dimostrare chiaramente che i “valori dello stato” erano più degni di rispetto di quelli che i mafiosi tradizionalmente portavano avanti. È questa, mi pare, la più importante lezione che ci offre lo studio della storia della campagna fascista contro la mafia. Si tratta di una lezione che Leonardo Sciascia – che aveva trascorso gran parte della sua vita a riflettere sulle difficili relazioni tra potere e moralità – aveva pienamente compreso».
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